Fear The Walking Dead

Fear The Walking

Dead

la paura è che continui ancora per molto

 

Piccola storia triste di speranze disilluse. È da febbraio 2016 che guardo con passione “Fear The Walking Dead” lo spin-off di “The Walking Dead”, perché spero che di assistere a un evento che aggiunga qualcosa alla saga dei morti che camminano della premiata ditta AMC. Ma niente.
E non è colpa mia o della spasmodica voglia di vedere dove la cattiveria umana possa andare o di come gli zombi possono mangiare “i morti che camminano”, ma è di chi ha creato l’attesa e instillato le false speranze. Perché ricordo bene che “Fear The Walking Dead” fu annunciato come un prequel del suo fratello maggiore e che doveva essere una serie che indagava sulle cause di questa invasione. Il che mi ha fatto pensare a un medical-zombie drama. E niente. Ancora.

Scusate se mi dilungo un po’ facendo un passo indietro, ma così posso esprimere meglio il mio disagio d’aver buttato non so quanti minuti di vita a seguire queste vicende.
La prima serie è molto convincente. Solo sei puntate, ambientate in una grande città, (siamo a Los Angeles, al contrario delle vicende di Rick e soci che stanno perlopiù nei boschi della Georgia) e con personaggi più approfonditi, che come sempre devono includere un po’ tutta la società. Così nessuno s’incazza. E abbiamo l’immancabile famigliola composta da Madison (Kim Dickens che non si perde una serie) dal compagno Travis (Cliff Curtis) e dai figli di lei, un ragazzo di nome Nick (Frank Dillane), un tossico con un’inquietante somiglianza con Johnny Deep e che smette di farsi senza grandi problemi e sua sorella, la bella (molto bella) Alicia (Alycia Debnam-Carey). Ah…c’è pure il figlio di Travis, un adolescente un po’ ribelle, assolutamente inutile alla storia.
Poi c’è Victor un elegante uomo di colore, che in seguito scopriamo essere gay (così, sapete? C’è proprio tutta la società civile), interpretato dal bravo Colman Domingo e infine un’altra famiglia, questa volta ispanica che si riduce presto a padre e figlia con lui, l’attore Rubén Blades, che ha fatto di tutto nella sua vita, il cui personaggio è in realtà un ex torturatore di un regime latino-americano. E siccome sono solo sei puntate, tutto è molto concentrato, intenso e so che da un momento all’altro diranno qualcosa di nuovo. Oh, ma niente, alla fine! Ma non c’è problema, penso, la seconda stagione mi stupirà.

Invece la seconda serie si allarga a quindici puntate e diventa la versione West Coast di “The Walking Dead”, con il solito gruppo di sopravvissuti che cerca di campare a lungo. Ogni tanto parlano spagnolo e quindi questo è un prodotto per la grande comunità ispanica e per i messicani. Stronzate di Trump permettendo. Ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole del confine Messico/USA e soprattutto in TV.

Non ho più grandi speranze per la terza annata. Ma la guardo, hai visto mai che magari mi perdo il colpo di scena? In effetti, un piccolo mistero ci viene svelato, una cosa molto piccola però e per il resto nessuna novità.
Madison e compagni, a parte perdere qualche pezzo importante, portano sciagure in ogni posto in cui si rifugiano. Tipo Rick “Grimmione” Grimes, ma va detto, che Madison è descritta con molta meno ipocrisia. Qui affossano un vasto ranch abitato da un tizio fissato con la sopravvivenza (il veterano Dayton Callie) e dai suoi strambi figli, che danno da vivere a parecchie persone. Non contenti causano la morte pure nel vicino accampamento indiano e come ogni buon americano, abbattono un tiranno messicano a capo di una diga creando più danni che altro.

Il finale di stagione è un delirio completo, con una sceneggiatura scritta a colpi di F5 (per citare gli sceneggiatori nella serie “Boris”). Robe pazzesche del tipo che Alicia chiusa in un magazzino ermetico con altre persone è l’unica che non muore per mancanza di ossigeno. Poi ci danno la versione locale di Michonne e soprattutto un Negan dei poveri.
Quest’ultimo alla guida di un gruppo di motociclisti si fa operare, senza anestesia, di tumore alla schiena. Ricucito, si alza e guida i suoi alla presa della diga, ma è la versione povera di Negan. Non dimentichiamolo.

E così, con un po’ di effetti speciali esplosivi nell’ultima puntata, si conclude la terza stagione, senza che questa invasione di zombie ci abbia raccontato qualcosa di nuovo. Gli spettatori se ne sono accorti, tanto che gli ascolti in calo hanno fatto pensare a un crossover con “The Walking Dead” che già di suo non se la passa benissimo.
Bah, se fossi l’AMC chiuderei tutto. Seppellirei i walking dead (spero apprezziate la battuta) perché a parte essere una storia per il pubblico ispanico, ci racconta le stesse cose, con le stesse dinamiche e la stessa retorica. Lo stile è ovviamente identico a “The Walking Dead” e quindi, quella che doveva essere una variante è solo una copia di una serie già in crisi di suo.

Invece è da Aprile che è stata annunciata una quarta serie, che ha evidentemente resistito al crollo di questa e che in questi giorni ha annunciato notevoli cambiamenti.
Andrew Chambliss e Ian Goldberg da “Once upon a time” ricopriranno il ruolo show runners al posto di Dave Erickson e Scott M. Gimple produttore e autore di “The Walking dead” entra a far parte della crew.
Non finisce qui, perché tra i protagonisti arriva Garret Dillahunt grande fan della saga e soprattutto di Jenna Elfman che ricordiamo per “Dharma & Greg”. E infine pare che il baraccone si trasferisca in Texas, dalle parti di Houston, dove potrebbe incrociare il personaggio di Graham di “The Walking Dead”. Sapete? Gli zombie non muoiono mai, ma qualcuno trovi il modo di metterci una pietra sopra.

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