Bohemian Rhapsody

Bohemian Rhapsody
Ammettiamo che esista una persona, molto improbabile sia chiaro, che non ha mai sentito nominare i “Queen” e che vada a vedere “Bohemian Rhapsody”.
Quella persona vede la storia di una band nata da un fulmineo incontro, in cui un tizio straniero con i dentoni, che vive con mamma e papà, folgora Roger Taylor e Brian May, il batterista e il chitarrista di una band chiamata “Smile”. Il magico incontro dove nasce l’energia cosmica.
Questo tizio, Freddie, è così istrionico che porta, nel giro di pochissimo

la band a un contratto con una major, alla pubblicazione di un album e a un tour, sold out, in Gran Bretagna.


Bravo questo Freddie, non c’è che dire. Prende per il culo con i
 suoi compagni un tizio di un’etichetta (Mike Myers che in “Wayne’s World” scuoteva la testa al ritmo di “Bohemian Rhapsody”), che boccia la canzone che dà il titolo al film, facendo perdere alla “EMI” questo gruppo lanciatissimo. E non solo, il nostro Freddie, che ha un gran carattere, fa feste private un po’ scatenate ma dove si beve solo un po’ di birra mentre lui se ne va in giro vestito da regale.

I suoi compari lo guardano già storto, il successo è planetario, lui si sposa e scopre di essere bisessuale. Anche se, a quanto si vede, sembra più un gay con l’hobby di limitarsi a strizzare l’occhio a un paio di uomini (e tocca il culo a un cameriere).
Canzoni e album memorabili si susseguono. Mai un flop. Ma come spesso accade, una promessa di una carriera solista mina l’integrità del gruppo che smolla il buon e fragile Freddie, che si rifugia in casa tra alcool e, forse, una polverina bianca che s’intravede su un tavolino. 

Passano gli anni e il gruppo si riforma per il leggendario “Live Aid”, prima del quale il cantante svela ai suoi compagni di avere l’AIDS. Quindi il “Live Aid” diventa un ultimo e soffertissimo impegno, in cui i nostri salvano l’evento che prima della loro esibizione non aveva incassato nemmeno una sterlina.
Titoli di coda. Si legge che Freddie muore qualche anno dopo per complicazioni dovute all’Aids.

Sarà che le vicende degli anni ottanta le ho vissute, ma ricordavo qualcosa di diverso, soprattutto la questione “Live Aid”. Rimando al fact-cheking di “Rolling Stone” e mi limito a sottolineare l’esistenza di un album come “Innuendo”, un capolavoro, l’ultimo, che qui viene relegato a una canzone nei titoli di coda. Altri album come “The Works”, “A Kind of magic” non pervenuti, così come le tante collaborazioni con altri artisti.

E va bene. Così sia. Godiamoci questo fumettone glam, pieno di musica, che ci racconta vita e miracoli della più grande band del mondo (a parer loro) e il cui cantante è un eroe senza macchia e paura. Gli altri, Taylor a parte, che ogni tanto sbotta, ma poi fa pace, sono dei grandi e razionali professionisti.

Capisco che con May e Taylor come produttori esecutivi, non si potesse scavare nel torbido o nelle leggendarie feste di Freddie Mercury, tra nani e cocaina. Capisco che far del “Live Aid” una sofferta ed eroica reunion sia un pezzo di sceneggiatura pazzesca, al pari del commovente scioglimento del gruppo o del ritorno sulle scene.
Senza contare che il bassista Deacon, resta relegato a figura di contorno un po’ comica e impalpabile (pare che non abbia un gran rapporto con i suoi ex compagni).

Non ho nulla contro Freddie Mercury. E’ stato sicuramente uno dei più talentuosi e istrionici performer della sua epoca. Un artista che ha sempre cercato di rinnovarsi e di dare al pubblico nuove emozioni. Un grandissimo. Ma mi è impossibile pensare a una figura senza ombre, come vedo nel film.
Non è nemmeno facile fare un biopic, la realtà si sa, è meno bella della finzione, anche se sei una rockstar. Ci era caduto Oliver Stone con Jim Morrison e pure Corbijn, che seppur vivesse fianco a fianco dei “Joy Division”, si è preso qualche licenza poetica per il suo “Control”.
E poi, come riportano le cronache, “Bohemian Rhapsody” ha avuto diverse vicissitudini, che forse ne hanno un po’ danneggiato la riuscita (ma non gli incassi). Una sceneggiatura riscritta più volte, il licenziamento del regista Bryan Singer a poche settimane dalla fine della produzione e l’addio del protagonista Sacha Baron Cohen, che lasciò perché non poteva sondare nel profondo la vita del cantante (ma tu guarda!).

Una regia non così ispirata, con scene finali (quelle del Live Aid) che mostrano tutti i limiti degli effetti speciali. Spettacolari, sì, ma visibilmente falsi.
Rami Malek, il definitivo Mercury, ma con gli occhi azzurri (lasciamo stare) ha creato un personaggio veramente perfetto, molto vicino alle movenze dell’originale. Così come il gallese Gwilym Lee che ci lascia pensare che Brian May sia tornato giovane per girare il film. 
Le scene in cui Mercury si rende conto di essere bisessuale o dice addio all’amata Mary sotto la pioggia e poi allontana il cattivo fidanzato Paul, fanno riferimento al più scontato melodramma zuccheroso.

Resta un film piacevole nel suo complesso, grazie alle tante canzoni, ma è un fumettone edulcorato che non so se sarebbe piaciuto a Freddie Mercury, che amava provocare. E sapeva farlo meglio dei suoi ex compagni.



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